Ero invidioso della sua sanitità
Leggendo gli atti del processo canonico a carico di Suor Virginia Maria de Leyva (la monaca di Monza di manzoniana memoria) mi ha colpito la testimonianza di una sua compagna di noviziato: «ero invidiosa della sua santità». Approfondendo la drammatica storia di questa infelice monaca mi sono fatto un’idea ben precisa che penso non sia molto lontana dalla verità. Quella di suor Virginia era una religiosità imperniata su di un pressoché totale formalismo esteriore formato da un indefinito numero di pratiche da compiere o di tradizioni da rispettare e da una miriade di scrupoli di coscienza perennemente presenti. Di un rapporto personale con Dio, sentito come Padre, neppure a parlarne. La sua religiosità non riuscì, in una parola, a farle comprendere che Dio la amava immensamente, le era accanto in ogni istante e che poteva, quindi, affidarsi a Lui e contare sul suo aiuto in ogni circostanza e situazione interiore si trovasse.
«Voi dunque pregate così …». La preghiera per Gesù non è una pratica o un pseudo dovere ma una neccesità, una dimensione costitutiva dell’essere umano, il tempo sacro dove il contingente comunica con il trascendente. Gesù non comanda di pregare perché nella sua ottica il colloquio con il Padre è cosa scontata, un atto fondamentale del suo essere “figlio dell’uomo”, un soffio vitale che mai può venir meno. Il cuore dell’uomo è spesso immerso in acque torbide, stagnanti; la preghiera rende trasparenti le sorgenti interiori, donando rinnovata energia al nostro modo di fare e di agire ecco perché David Maria Turoldo affermava. “Pregare, forse il discorso più urgente”.
don Luciano Vitton Mea