Mi assale una domanda
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
Quando medito questo passo evangelico provo una sorte d’inquietudine e timore. Faccio quindi fatica ad abbozzare un seppur breve commento. Anzi mi assale una domanda, che come un turbine, lascia nel mio cuore una scia di desolazione ed amarezza: come posso correggere chi mi sta accanto quando i suoi errori e le sue mancanze, come uno specchio, riflettono il mio volto segnato dalle rughe della fragilità, quando io stesso porto le cicatrici dei suoi stessi peccati? Come posso dirgli “ti stai comportando male, stai sbagliando, devi cambiare” quando io stesso non cambio mai, sono terribilmente uguale e perspicace nel compiere ciò che non è conforme alla santa volontà di Dio? Eppure la correzione fraterna è la prima carità che Gesù ci invita ad esercitare, anzi, un imperativo, una specie di undicesimo comandamento. Come fare? Innanzitutto dobbiamo comprendere che correggere non significa giudicare, ammonire non è sinonimo di sgridare o rimproverare, tutt’altro. Ma per entrare nella giusta dimensione della correzione fraterna facciamo un esempio semplice semplice, magari banale, ma comprensibile a tutti. Quando siamo ammalati o portiamo il peso di una patologia cronica e vediamo in un’altra persona le stesse avvisaglie che abbiamo provato noi viene spontaneo dirgli: “Non sottovalutare il perdurare del tuo disturbo, vai dal medico”; oppure quante volte consigliamo una pomata o un balsamo a chi è afflitto dalle nostre stesse piaghe dicendogli: “Applica questo unguento sulle tue ferite: ne troverai giovamento, a me ha fatto tanto bene”. Così è la correzione fraterna, l’ammonire il fratello quando sta sbagliando. Correggere non vuol dire salire in cattedra, assumere toni manichei, ritenersi migliori degli altri. Qualsiasi atteggiamento di superiorità di fronte alle altrui mancanze ci fa scivolare nel bianco sepolcro dell’ipocrisia. La correzione fraterna di cui ci parla Gesù è dialogo tra malati, un parlare dell’altrui infermità partendo dalle nostre fragilità e mancanze, dai nostri stessi difetti e peccati. La strada giusta, nella correzione, parte sempre da una presa d’atto della nostra povertà, di aver masticato tanta tanta miseria. Così intesa la correzione dell’altro diventa anche motivo per la nostra conversione, una forma di auto esortazione e autocorrezione. Infatti il verbo ammonire traduce un verbo ebraico che alla radice significa anche ‘esortare ed educare’. Osserva, infine, A. Cencini nel suo libro “Come olio profumato”: «C’è poi un’interpretazione etimologica veramente molto suggestiva secondo la quale `correggere’ verrebbe da cumregere, ovvero significherebbe letteralmente `portare assieme’, portare assieme il peso di un problema, di una debolezza, di un peccato, di una situazione intrigata del fratello, insomma, per non lasciarlo solo e aiutarlo a venir fuori dai suoi guai […]. Correzione fraterna è [dunque] anche questo: addossarsi il peso di qualcuno che è debole e che con le sue forze non potrebbe mai risolvere i suoi problemi, ben ricordando che siamo stati altre volte portati da qualcun altro. Allora davvero si realizza l’integrazione del male».
don Luci ano