Il Santo del giorno – 21 Luglio – San Daniele
Non esiste ragione fondata per dubitare dell’esistenza storica di Daniele e dei fatti e delle visioni a lui attribuite, sia che si ammetta essere Daniele stesso all’origine delle tradizioni orali o scritte, raccolte dal redattore del sec. II, sia che si preferisca un’origine alquanto posteriore, ma sempre vicina alle tradizioni e ai tempi di Daniele (sec. VI). Lasciando come dubbia, o almeno non dimostrata, l’identità del profeta col Daniele di Ez. (14,14,20; 28,3), nominato tra Noè e Giobbe e lodato per la sua giustizia e sapienza, limitiamoci alle notizie del libro.
Daniele, l’ultimo dei quattro profeti detti maggiori, giudeo, nato probabilmente a Gerusalemme da famiglia nobile, forse imparentata coi re di Giuda, fu deportato a Babilonia da Nabucodonosor, insieme con altri giovani dello stesso rango sociale, nell’anno terzo o quarto di Ioakin, re di Giuda, cioè il 606-605 a.C.
A Babilonia fu scelto con altri tre giovani nobili giudei (Anania, Azaria e Misaele) per essere ammesso, dopo una conveniente preparazione di tre anni nella lingua e negli usi dei Caldei, alla corte del re, per assolvere incarichi ufficiali onorifici. Secondo l’uso, fu loro cambiato il nome: a Daniele, che poteva avere allora dai quindici ai venti anni, si diede quello di Baltassar. Con i suoi compagni fu presentato al re al quale fece ottima impressione, non solo per la sua prestanza fisica (conservata malgrado l’astinenza dal vino, dalla carne, e da altri cibi prelibati che gli venivano offerti dalla mensa del re e che egli, per amore della Legge, gentilmente rifiutava), ma soprattutto per le doti di spirito che in lui il re poté ammirare quando, avendolo esaminato, trovò scienza e intelligenza dieci volte superiori a quelle di tutti i suoi magi e indovini (Dan. 1, 20). Ammesso pertanto alla corte, dopo che ebbe dato saggi non equivocabili, anzi, sbalorditivi, della sua rettitudine, fu fatto principe di Babilonia e prefetto su tutti i sapienti del regno; dietro sua richiesta, anche i compagni (Anania, Azaria e Misaele) ebbero posti onorevoli e cariche di responsabilità nella provincia, mentre egli rimaneva a palazzo presso il re (Dan. 2, 46-49).
Il primo saggio della sua probità e saggezza sembra sia stato dato da Daniele nella causa di Susanna: ella fu sottratta alla morte a cui era stata ingiustamente condannata, e la sentenza si ritorse contro i due giudici disonesti dopo che essi erano stati convinti pubblicamente da Daniele della loro falsa testimonianza contro l’innocente. Daniele è presentato in questo episodio in giovane età (Dan. 13, 45), circostanza che rende tanto più ammirevole la sua maturità di giudizio, in contrasto con la fatuità e corruzione dei due giudici anziani. Come questo suo intervento nel caso di Susanna gli acquistò fama presso il suo popolo, cioè gli esuli giudei, il cui numero era nel frattempo aumentato con la seconda deportazione del 598, così l’interpretazione del sogno di Nabucodonosor sulla grande statua plurimetallica, abbattuta dalla piccola pietra staccatasi dal monte, lo rese celebre tra i babilonesi e onorato della piena fiducia del re tra i principi della corte. Il Dio d’Israele è glorificato come Dio sommo, che solo ha la sapienza delle cose occulte e la comunica ai suoi servi fedeli, come Daniele (Dan. 2, 47).
Era l’anno dodicesimo di Nabucodonosor (=593), quando Daniele, allora tra i ventisette e i trent’anni, si affermò quale oracolo di Dio, favorito dalla scienza dei segreti, superiore di gran lunga a quella di tutti i magi, indovini, saggi e caldei di Babilonia. Egli non fu coinvolto nell’accusa dei babilonesi mossa contro i suoi tre compagni, Anania, Misaele e Azaria, per non aver voluto adorare la statua del re, ma la pena della fornace ardente, loro inflitta, dovette affliggerlo grandemente, vedendo che quello stesso ufficio onorifico di prefetto della provincia di Babilonia, concesso loro dal re per sua mediazione (Dan. 2, 49), era stato occasione di disgrazia: tuttavia l’esito felice di quella prova mutò la tristezza in gaudio e poiché i suoi compagni, scampati al fuoco, riebbero le loro cariche (Dan. 3, 97), il Dio di Israele fu riconosciuto con regio decreto come l’unico Dio vero, capace di salvare coloro che credono in lui (Dan. 3, 96).
Pochi anni dopo Daniele interpretò un altro sogno di Nabucodonosor, quello del grande albero rigoglioso, abbattuto e reciso, che risorse dalle radici con la magnificenza di prima. Daniele, chiamato dal re, gli spiegò il senso di quel sogno, invano cercato dai sapienti: l’albero è simbolo dello stesso re, che per la sua superbia sarà privato della gloria regia e ridotto allo stato umiliante di una bestia fino a che non riconoscerà che l’Altissimo detiene il dominio sul regno degli uomini e lo dà a chi vuole (Dan. 4, 21 sg.). Per mitigare alquanto questo annunzio così severo e terrificante Daniele, da buon amico, consiglia al re di procacciarsi la divina clemenza con opere buone e con la pietà verso i poveri (Dan. 4, 24).
Nuova prova dello spirito di sapienza ricevuto da Dio la diede Daniele nello svelare il senso delle enigmatiche parole Mane’ Thecel, Phares nella cena di Baltassar, il quale nella lunga assenza di suo padre Nabonide, ne teneva le veci a Babilonia: questa cena di gala con tutti i principi e dignitari di corte, con le mogli e concubine, era un affronto alla religione dei giudei, in quanto in essa si faceva uso dei vasi sacri del Tempio di Gerusalemme. L’orgia si arrestò, però, alla vista della mano misteriosa che scriveva sul muro segni ignoti. I sapienti, magi e indovini, chiamati dal re, non furono capaci di decifrare la scrittura. Allora, su consiglio della regina, fu introdotto Daniele, che dopo aver rifiutato i sommi onori e i regali che il re gli prometteva, lesse e interpretò le fatidiche parole, che contenevano la sentenza di Dio sulla fine di Baltassar e del suo impero, sentenza che si compì quella stessa notte, subentrando l’impero persiano a quello babilonese (538).
Le visioni profetiche, sia quelle coi tratti apocalittici di bestie simboliche, raffiguranti i diversi regni della terra fino all’avvento del Regno di Dio (capp. 7-8), il cui tempo è approssimativamente indicato (cap. 9), sia quelle che, senza simboli, parlano direttamente degli stessi regni e dei loro re, senza però nominarli (capp. 10-11), e quella ultima che annunzia la fine dei tempi (cap 12), sono tutte messe in bocca a Daniele che parla in prima persona e riceve da un angelo (Gabriele) la spiegazione delle visioni avute.
Per muovere Dio a clemenza, Daniele affligge se stesso col digiuno. indossa gli abiti di penitenza e confessa i peccáti suoi e quelli del popolo, riconoscendo la giustizia di Dio in tutto quel che si patisce. Implora misericordia, pregando Dio di affrettare il suo aiuto, per amore del suo santuario, che da tanto tempo è desolato, e per riguardo a se stesso, fedele alle sue promesse. In risposta alla sua accorata preghiera, Dio gli manda l’angelo Gabriele con un messaggio di consolazione.
Daniele, sopravvissuto al crollo dell’impero neo-babilonese (539-38), vide ancora i primi anni del nuovo impero persiano: la sua ultima visione è datata dall’anno terzo di Cliro (536), quando egli, nato verso il 620, era già più che ottantenne. I Greci, presso i quali la festa è al 17 dicembre, lo ricordano insieme con altri santi dell’Antico Testamento la domenica precedente al Natale.
Teofilo Garcia de Orbiso